Cima Lepri

Un ritorno, quasi un prima, di certo una classica della Laga da Macchie Piane a Cima Lepri


Oggi ci siamo lasciati tentare dall’escursione più classica della Laga, per molti che arrivano su questi monti da Ovest arrivare motorizzati fino alle Macchie Piane e da li salire al Pizzo di Sevo o a Cima Lepri, spesso è normale è anche fare l’accoppiata, rappresenta la classica escursione del battesimo laghista. Ed oggi in fondo è stato un secondo battesimo per noi, quello del mesto ritorno, da quando più di un anno fa il terremoto ha devastato Amatrice e le sue frazioni non ce la siamo più sentita di venirci a divertire quassù, i Sibillini in fondo ci stanno ancora aspettando. Scegliere Macchie Piane e Cima Lepri è stata una questione di affetto, di ritorno al normale, arrivarci è stata la parte più difficile; le strade sono percorribili, quasi perfette, venivamo da Roma ma non siamo usciti dalla Salaria in direzione Amatrice, abbiamo continuato per qualche chilometro e siamo usciti in direzione Saletta. La stradina si contorce sui fossi che scendono dal Sevo che domina questo versante, le ombre lunghe delle prime ore della giornata che aiutano a non fare definitivamente giorno, insieme a quell’aria di trapasso dalla stagione estiva a quella autunnale, inquietano l’anima, già stretta di suo ed in attesa dell’ineluttabile realtà. Che non tarda ad arrivare, Saletta, Casale, Cossito, Rocchetta in lontananza, Sant’Angelo sfilano silenziosi e distrutti profanati nella loro intimità. Case aperte e squartate, con la storia di chi le abitava alla mercé di tutti, altre accartocciate su se stesse, molte ridotte a cumuli di pietre indistinte, poche si sono salvate pochissime sono ancora intatte e pochi sono gli umani che lenti per le strade sembrano vegliare sui resti. Desolazione, distruzione, pietà, tristezza e voglia di urlare che tutto questo non deve essere possibile, sfiliamo dentro i paesi in alcuni tratti trasformati a trincee, anche la voglia di guardare si fa timida di fronte a tanta desolazione, l’impressione è quella di essere degli intrusi, si ha voglia di chiedere scusa quasi per essere li di passaggio, per andarsi a divertire in montagna. Superiamo sant’Angelo, quasi irriconoscibile, quasi non c’è più nulla, c’è però un agglomerato di casette prefabbricate dove la vita sembra scorrere regolarmente, auto parcheggiate, panni stesi, bambini che giocano, le macerie intorno raccolte e contenute con una sorta di ordine come a cercare di attenuarne la forza espressiva della distruzione. Lo ammetto, non vedevo il momento di prendere la stradina che saliva a Macchie Piane, intorno solo alberi, quelli sono normali, come sempre sono stati, le brutture sono oltre la coltre di foglie verdi che si stanno tingendo di autunno e tanto basta a farci ritornare la voglia di qualche timida parola. Nulla è mutato della strada che sale, anche le buche sono sempre le stesse, da Macchie Piane il panorama è ampio fino al Terminillo e al Velino, il Vettore sembra di toccarlo; la vallata di Amatrice e della Salaria è invasa dal sole, le linee morbide e gentili del territorio ed i primi colori autunnali riportano alle impressioni di sempre, per un attimo si riesce a far finta che nulla sia accaduto laggiù. Ne è passato di tempo dall’ultima volta che siamo venuti da queste parti, almeno tre anni se non quattro, ma i gesti si ripetono come se fossimo stati quassù solo ieri, il Sevo svetta familiare alto sulla sinistra, appena imbiancato da una precoce nevicata, puntiamo la fila di alti faggi in cima alla piana, li raggiungiamo e ci sfiliamo sotto fino a raggiungere il bosco, un breve tratto di repentina salita tra una prateria ancora bagnata dalla rugiada della mattina ed incrociamo il Tracciolino di Annibale che taglia il versante verso Sud in leggera salita. Qualche tratto di sentiero ampio, altri si perdono in una sottile traccia tra l’erba alta, ora si alza sugli spigoli che scendono dalla cima come per affacciarsi sui panorami dominati dalle coste della Laga e poi riprende a girare intorno alla montagna, un primo fosso, dove il continuo stillicidio dell’acqua ha scoperto gli strati di arenaria, entra nel fianco del monte quasi a violentarlo o volerlo spaccare, la prateria sconfina nelle lastre di arenaria, si guada un leggero rivolo silente e si risale su versante opposto, di nuovo uno spigolo tondo da superare, altri panorami, altri fossi, altre coste striate di arenaria e prateria, tra luce ed ombra, ora l’orizzonte è formato dalla linea che sale al Lepri, ora il panorama è tinto di bianco, una prima precoce nevicata settembrina. Entriamo e superiamo un altro fosso, più ricco di acqua, più scolpito nelle sue antiche arenarie stratificate; superiamo sul filo di un sentierino qui molto stretto che taglia una ripida pagina del Sevo ed oltre l’ennesimo spigolo che scende dall’alto incontriamo la prima neve dell’anno. Poche macchie innevate per ora, ma che passo dopo passo diventano un nastro continuo che invade la traccia; solo due settimane fa morivamo di caldo ed oggi calpestiamo la prima neve fino alle caviglie, pazzia tangibile di questo clima inusuale ed imprevedibile. Ormai siamo in vista della sella del monte Sevo, per qualche tratto la crosta della neve regge il nostro peso segno che la temperatura della notte scende davvero a bassi livelli; sono passate 2 ore e mezza dalla partenza a Macchie Piane quando raggiungiamo la palina segnaletica sotto la sella, anche questa fa parte della storia e della cultura del paesaggio, tutto è immutato, mi impegno per rimetterla in sesto, è sbilenca, le pietre dell’ometto dove è piantata non sono ben incastrate, un po’ di fatica ma ne vale la pena. Verso destra il profilo si perde nella linea di salita a Cima Lepri, continuiamo tenendoci un po’ sotto ma ben presto i profili dei monti Gemelli e dei Sibillini diventano il nostro orizzonte, ancora dietro la fascia azzurro tenue dell’Adriatico. Saliamo con pendenza costante tra neve e praterie arse dal sole dell’estate rovente e dal freddo delle notti di questo periodo, piccole impennate ogni tanto poi il sentiero si appoggia di nuovo, poi sale ancora e ritorna ad appoggiarsi, i ricordi mi tradiscono, più lunga di quanto ricordavo la salita a Cima Lepri, e si confermano, comunque sempre bella e panoramica. Meno di un paio di chilometri e quasi trecento metri di dislivello, in un’ora e venti minuti dalla sella del monte Sevo arriviamo alla posticcia e “tubolare” croce di Cima Lepri, da dove gli orizzonti ed i panorami si aprono in maniera entusiasmante. La neve sulle montagne verso Sud, fino ai profili del Gran Sasso è caduta più intensamente che altrove, non tanto da uniformarle ma abbastanza per dargli i contorni invernali; i profili si leggono nitidi e le linee sono perfette, con lo sguardo seguo le creste che ho calpestato nel tempo e mi diverto a dare i nomi ad ogni montagna. L’azzurro vasto dell’Adriatico che si perde nell’orizzonte da una parte, quello piccolo ma più intenso che occhieggia tra le montagne più basse dall’altra, il lago di Campotosto; in mezzo i profili delle creste della Laga che tanto conosciamo, il Corno Grande rispecchia come un diamante nel mezzo esaltato dai riflessi della luce che rimbalza sui suoi bianchi pendii. Solo chi sale per montagne può capire quanto sia bello ciò che si riesce a vedere da quassù in una giornata come questa, la nevicata fuori stagione, l’aria fina e pulita fino agli orizzonti lontani, quel tenue azzurro del mondo pieno di sfumature, riflessi, ombre e controluce che aggiungono fascino e atmosfera; ci mettiamo sotto vento a mangiare qualcosa e abbiamo tutto il tempo per fare nostro tutto quello che avevamo intorno, o almeno ci abbiamo provato. L’idea di raggiungere il Moscio l’abbiamo fatta tramontare subito subito, non che fosse impossibile ma un paio d’ore tra andare e tornate le avremmo impiegate, forse non sarebbero bastate, non valeva la pena era perfetto così questo momento, era perfetto così questo ritorno sulla Laga. Il ritorno è stato per la stessa via, per le stesse orme fin tanto eravamo in alto sulla neve e per le stesse tracce più in basso, i sentieri si erano in molti casi trasformati in rigagnoli e piccoli fossi e anche quelli principali nella pancia del Sevo erano più ricchi d’acqua; i leggeri nevai in quota si scioglievano al sole, i fossi rumoreggiavano allegri, la Laga tornava ad essere la Laga, e più giù a gioirne sarebbe stato l’esiguo lago di Scandarello ed il corso del Tronto da molto tempo ormai ridotti ai minimi termini. Scendendo a Macchie Piane non si può far finta di non vedere Amatrice, quello che rimane di Amatrice, il cuore dice di non soffermarcisi troppo, lo sguardo la evita, la distanza per fortuna non restituisce i dettagli, ma non si riesce a mentire all’evidenza e al cuore, quei profili tinti di caldo, quegli edifici addossati gli uni agli altri a formare quel borgo che amavamo tanto e tutti, non c’erano più, il cuore del paese è una collina grigia di macerie, la torre svetta solitaria mentre intorno il verde è sempre quello. La tristezza ritorna nostra compagna, lassù tutto è come prima, laggiù più nulla lo è, non ci sono più le nostre trattorie, i bar dove ci si fermava, non ci sono più chissà quante persone che abbiamo sfiorato e con le quali chissà quante volte abbiamo parlato di montagna. Anche sulla strada a ritroso le emozioni sono le stesse, solo il rispetto per tanta dignità a chi ha subito così enorme sventura proviamo, volevamo portarci a casa qualche immagine anche di questo disastro, ma non ce l’abbiamo fatta, solo riserbo e dolore, solo rispetto per questa povera gente, all’ombra di quelle belle montagne tanta devastazione e tristezza, mai avremmo potuto immaginare tanta desolazione.